RASSEGNA STAMPA

IL MANIFESTO - Dovremmo esserci tutti in quell'aula dove 25 di noi rischiano più di due secoli di galera

Genova, 17 novembre 2007

Sono uno di quelli di via Tolemaide, io. Ero lì quel giorno, il 20 luglio 2001, e ci sono idealmente rimasto per sei anni, su e giù, quotidianamente, per quella striscia di asfalto incandescente, imbrattata di sangue, l'aria impestata di gas velenosi. Sei anni, lì, attraverso i pensieri, i gesti, la voce di un personaggio che, dentro una stanza d'albergo da cui si vede la Lanterna e con una mappa della città stesa sul letto, ritorna a Genova anni dopo, ripercorre la memoria, rivive i momenti, osserva immagini, segna sulla mappa le piccole tappe determinanti di quell'esperienza. Racconta e, di quei giorni, ne fa romanzo. Non è lì alla ricerca della verità, non è compito dei romanzieri, quello, né, tantomeno, di un personaggio di finzione. Ciò che, attraverso di me, l'io narrante cerca di trovare è un sentimento. Cercato - e chissà se trovato - attraverso il percorso della memoria, di ciò che di quei giorni, negli anni, ci è rimasto dentro. Quando ho incominciato a scriverlo, sapevo sarebbe stato necessario tanto tempo. I giorni di Genova, l'esperienza atroce avrebbe dovuto sedimentarsi dentro, trovare uno spazio accettabile, plausibile, in un animo che mai avrebbe immaginato di vivere - di sentire - una tale esperienza. Un percorso inevitabile, che ha riguardato tutti quelli che ci sono stati. E per alcuni di loro, è scattato pure un comprensibile effetto rimozione, tanto fu disgustoso ciò che vissero, videro, subirono. Animi sconvolti e ferite da cicatrizzare a parte, tutti speravamo che, sei anni dopo, il percorso della chiarezza, quello ufficiale, istituzionale, fosse giunto ben al di là di dove si trova ora. Che una commissione parlamentare fosse già insediata, con la consapevolezza che, in questo paese, le commissioni raramente sono giunte a dei risultati, e con il rischio, a commissione in corso, che di Genova 2001 si parlasse ancor meno di quanto fatto finora. Per non dire poi della certa prescrizione di cui usufruiranno i responsabili della «macelleria messicana» della Diaz e i torturatori di Bolzaneto. Per tutto questo è necessario e doveroso tornare a Genova, sabato 17 novembre. Tornare a Genova per ripartire da Genova. Fare della memoria il nostro presente. A guardare l'intero procedimento, sembra che la magistratura genovese si sia mossa come fecero le forze dell'ordine sei anni fa, lungo le strade della città. A caso. Chi capitava, capitava, e giù botte. Adesso, a chi è capitato, giù anni di galera. Per equiparare, hanno detto. Per mettere sullo stesso piano, in un equilibrio sghembo, il processo ai venticinque manifestanti con quello degli incursori della Diaz e quello degli aguzzini di Bolzaneto, ostinata ricerca di una delle più improbabili verità condivise che sempre più pochi, per fortuna, attraverso arzigogolate elucubrazioni, inaccettabili accostamenti, insistono a invocare per Genova. Non solo. La richiesta di pene severissime istituzionalizza - perché si sa, è il paese delle semplificazioni, questo, degli appiattimenti - il luogo comune del «se la sono cercata». La falsa lettura che fa di Genova 2001 un semplice episodio di ordine pubblico, dove dei manifestanti anziché manifestare, devastavano e saccheggiavano e le forze dell'ordine non facevano che ristabilire, appunto, l'ordine. Eppure, girando l'Italia a presentare il romanzo, mi rendo conto di come la percezione di Genova da parte di gente che non c'era, che ne sapeva poco, sia cambiata. Forse per via delle ammissioni di dirigenti delle forze dell'ordine, forse per le telefonate agghiaccianti fra i poliziotti rese pubbliche qualche mese fa, e forse anche grazie alla trasmissione di Carlo Lucarelli, Genova 2001 diventa qualcosa, per loro, da approfondire, perché - dicono - l'avevamo liquidata troppo in fretta, con superficialità. Ora, invece, e non sono pochi, vengono per saperne di più. Non sono pochi, hanno voglia di capire, ma non basta, perché poi dall'alto tentano di ricacciarla in un angolo della memoria, Genova, in quello più polveroso e inaccessibile. La memoria di Genova è - dovrebbe essere - memoria collettiva, dolore condiviso, paura condivisa, rabbia condivisa. E, ormai, dopo tutto questo tempo, dovrebbe essere storia condivisa. Dovremmo esserci tutti, tutti trecentomila, dentro a quell'aula di tribunale dove venticinque di noi rischiano più di due secoli di galera. Alla lettura della notizia, quella cifra sembrava la leggessimo ancora sotto l'effetto stordente e asfissiante dei gas di Genova, vietati in guerra ma consentiti, solo in Italia, in casi di ordine pubblico. Era il rimbambinento provocato da quei cosi a farci leggere male. E invece no. Realtà pura. E allora, noi, quelli di via Tolemaide, quelli di Genova 2001, dobbiamo tornare tutti lì. Processateci tutti. Andate a prendere anche il protagonista del mio romanzo nella sua casa di carta. Accusatelo, perché a pagina 52 disegna sulla mappa la propria videocamera come fosse una pistola, to shoot images verso chi, anni prima, gli puntò addosso veri fucili che sparavano gas ad altezza uomo. Processatelo, perché a pagina 115 si accorge di non avere più il berretto in testa e spera di averlo lanciato contro i plotoni schierati contro di lui, contro il corteo. Chiedetene il massimo della pena perché a pagina 114, mentre scappa dentro a un tunnel, dice: «Sarei stato capace di tutto in quel momento. Avrei fatto qualunque cosa a quelli che mi stavano inseguendo e sparando. Qualunque cosa a quelli che mi stavano squarciando i polmoni, occludendo i bronchi, cartavetrando la gola, arroventando la pelle, infiammando gli occhi». Condannatelo, il protagonista del mio libro, reo di aver provato a far arrivare a chi di Genova sapeva poco o nulla, la storia di Genova. *autore del romanzo «Cosa cambia», Marsilio, www.robertoferrucci.com